Le sanzioni all’Iran: lo yuan (r)aggira Hormuz?

di Maurizio Gardenal, Avvocato, Dott. Prof. Alessandro Politi, Studio legale internazionale Gardenal & Associati
Articolo pubblicato su “Diritto 24″, rubrica del Sole24Ore.com, 3 maggio 2019

Dopo il ritiro unilaterale di Washington dal JCPOA e, passato il 2 maggio, l’esclusione a tempo determinato di alcuni Stati eurasiatici dalle nuove sanzioni petrolifere contro l’Iran terminerà si veda sul tema il nostro contributo:

Pertanto, senza queste deroghe, i paesi di Cina, Corea del Sud, India, Italia, Giappone, Grecia, Taiwan e Turchia non sono più autorizzati dalla Presidenza USA a fare affari con l’Iran e soprattutto ad importare greggio.

L’idea che Washington eserciti il diritto esclusivo di stabilire chi è autorizzato o no a somministrare energia alla comunità internazionale, ivi inclusa una superpotenza come la Cina, sembra ignorare il principio di sovranità nazionale e dunque è stato inteso da Tehran come un atto di ostilità.

Dal canto loro, il comandante dell’Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC, alias Pasdaran) – il generale di brigata Hossein Salami, un veterano della guerra Iran-Iraq, ed il Comandante della Marina, il contrammiraglio Alizera Tangsiri, non hanno escluso il blocco dello stretto di Hormuz.

È una minaccia già proferita altre volte, ma mai attuata seriamente, nemmeno durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988) per ovvi motivi. Il primo è che l’Iran ha sì un potere d’interdizione notevole, anche solo con semplici mine navali, ma danneggerebbe le sue stesse esportazioni. Il secondo è la talassocrazia indiscussa dell’US Navy, appoggiata da tutte le petromonarchie locali una volta che il passaggio obbligato venisse chiuso, anche quelle meno ostili a Tehran.

È vero che i progressi nella missilistica russa in mano alle forze iraniane renderebbero più difficile esercitare il potere navale nella zona (SS-N-22 Sunburn – P-270 Moskit ed SS-N-26 Strobile – P-800 Onyx/Yakhont), ma è altrettanto vero che il logorio imposto dalle forze aeronavali statunitensi sarebbe superiore.

In definitiva da 30 anni è in corso un gioco di deterrenza irano-statunitense proprio intorno al passaggio obbligato di Hormuz e parte del calcolo strategico sono i temuti effetti sul prezzo del petrolio e sull’ancor più volatile mercato dei derivati. Riguardo ai prezzi energetici è chiaro che un forte rialzo sarebbe utile a tutti i produttori, dallo shale in giù, filo- o anti-statunitensi che siano, ma creerebbe fortissime tensioni con i paesi consumatori, che attuerebbero velocemente politiche di contrazione dei consumi.

In più, mentre il 90% di questo mercato è in mano a una decina di grandi conglomerati finanziari genericamente euroatlantici, le logiche del profitto (come si è visto chiaramente nella tutt’ora perdurante crisi finanz-economica dal 2006) sono totalmente transnazionali e non sottomesse ad alcun potere statale.

Questo è un tipo di variabile molto presente all’attuale amministrazione a Washington ed ineludibile anche per il triangolo emiratino-israelo-saudita. La guerra “vera” all’Iran resta problematica, mentre quella per intermediazione resta inconcludente e le sanzioni richiedono almeno un decennio e mezzo di tenacia politica.

Chi dice Iran, dice Golfo, ma le implicazioni del suo ruolo e collocamento sono chiaramente euro-asiatiche ed indo-pacifiche; basti pensare alla rete di rapporti tessuta dalla Belt and Road Initiative, dall’Unione Economica Eurasiatica, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, il Corridoio di Trasporto Internazionale Nord-Sud.

Come reagiranno i paesi interessati? Grecia e Taiwan hanno interrotto gli acquisti, Giappone e Corea del Sud li hanno fortemente ridotti, la Turchia sta premendo con veemenza per un’estensione delle importazioni e l’Italia si è allineata, ma negozia per importare ancora (visto che la Libia è un problema e l’Algeria potrebbe diventarlo per crisi economica).

Resta la “Cindia” insieme alla carta libera russa. La Russia dopo il costoso successo in Siria non ha nessuna intenzione di abbandonare Tehran per ovvie ragioni geopolitiche, ma deve badare ai propri incassi energetici.

La Cina ha bisogno di energia e cercherà un tacito compromesso tra riduzione sostanziale e rispetto formale dell’embargo, mentre da lungo tempo sta riducendo la sua dipendenza dai choke points di Hormuz e dello Stretto di Malacca. D’altro canto gli USA si fanno poche illusioni sul rispetto cinese delle sanzioni: Brian Hook (US Special Representative for Iran and Senior Policy Advisor to Secretary of State) ha precisato che il suo governo “would sanction any sanctionable behavior” ma, interpellato se ciò si applicasse alle entità cinesi ha aggiunto “I didn’t say that”.

L’India non ama Pechino, ma sta investendo nel porto iraniano di Chabahar e collabora con Teheran all’interno del progetto INSTC (Internatio International North–South Transport Corridor) con terminali Mumbai e San Pietroburgo. Un primo mattone, tutto da verificare anche rispetto alla BRI, di un’intesa indo-iraniana prevedibile dal 2006 (progetto Nomisma-OSSS Nomos & Khaos).

Conclusioni

Mentre l’Iran continuerà ad aggirare l’embargo, l’intesa ambigua Mosca-Pechino ha già avviato un mercato congiunto di rilevanza strategica ed economica non secondo a nessuno.“L’urto sul commercio di Washington e i nuovi mercati in ascesa”.

Sul fronte valutario la Banca Centrale Russa ha ridotto le riserve in dollari dal 46% al 22% con un taglio drastico del biglietto verde che sarà rimpiazzato progressivamente dal Renminbi. A sua volta Pechino ha invece aumentato le sue riserve in dollari rispetto all’ottobre-novembre 2018, anche se le stime del Tesoro USA sono molto prudenti su dati cinesi sostanzialmente classificati.

Solo nei primi otto mesi del 2018 gli scambi bilaterali Russia – Cina hanno registrato una ascesa del 25,7% su base annua per un valore di $67,51 miliardi e la Cina resta il primo partner commerciale della Russia per otto anni di seguito, secondo le informazioni fornite dalla China’s General Administration of Customs. Tuttavia è interessante notare che nel 2018, per la prima volta dalla crisi del 2006, Mosca ha un attivo commerciale nei confronti di Pechino (dati FMI) grazie all’aumento delle esportazioni energetiche superando come primo fornitore ar-Riyadh e Luanda.

Entrambi i paesi hanno interesse a valorizzare la propria valuta negli scambi rispetto al dollaro, creando le premesse per un sistema parzialmente multivaluta negli scambi energetici, specialmente con l’Iran. Se lo Special Purpose Vehicle INSTEX europeo entrerà concretamente in funzione, si creerebbe un precedente importante di diversificazione valutaria in un settore da sempre presidiato dalla moneta statunitense.

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