La clausola di anticorruzione nei contatti internazionali

a cura di Maurizio Gardenal, Avvocato, Carlotta Colace, Dottoressa, Studio legale internazionale Gardenal & associati

Parlando di corruzione si è indotti a pensare a relazioni con la Pubblica Amministrazione. Nondimeno, tale fenomeno interessa anche i rapporti tra enti privati. Come noto, il reato di corruzione si configura, in linea generale, nel momento in cui un soggetto, con un comportamento doloso, corrisponda, riceva oppure semplicemente offra denaro o altre forme di utilità al solo scopo di compiere atti in violazione dei propri obblighi.
Sul piano internazionale le normative che rilevano in materia sono principalmente la risoluzione n. 58/4 (la c.d. Convenzione di Merida) adottata il 31 ottobre 2003 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (ratificata dall’Italia con Legge n. 116/2009) e la Convenzione Penale sulla Corruzione (la c.d. Convenzione di Strasburgo) emanata dal Consiglio d’Europa il 27 gennaio 1999 (ratificata dall’Italia con Legge n. 110/2012).
La Convenzione di Merida all’art. 21, rubricato “corruzione nel settore privato”, delinea la fattispecie del reato di corruzione nel settore privato ed invita gli Stati membri a classificare come illecito penale tutte le condotte, commesse con dolo, che integrano la fattispecie della corruzione, nell’ambito di attività finanziarie, commerciali ed economiche.
Più in dettaglio, la Convenzione di Strasburgo agli artt. 7 e 8 distingue espressamente due fattispecie di reato che riguardano il settore privato: “la corruzione attiva nel privato” e “la corruzione passiva nel privato”. Tali previsioni, in linea generale mirano a punire l’atto, commesso intenzionalmente, di dare oppure ricevere un indebito vantaggio “al fine di compiere o astenersi dal compiere un atto, ciò in trasgressione dei [propri] doveri”.
Al fine di dare effettiva attuazione agli impieghi assunti con la ratifica delle disposizioni internazionali, il governo italiano ha emanato la Legge n. 190/2012 (la c.d. Legge Anticorruzione), in forza della quale è stato modificato l’art. 2635 c.c., in passato rubricato “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità” ed ora invece “corruzione tra privati”, il quale prevede espressamente le sanzioni cui possono incorrere gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti che si occupano della redazione di documenti contabili, i liquidatori ed i sindaci che pongono in essere il reato di corruzione, nella forma della violazione degli obblighi connessi al loro ufficio o del dovere di fedeltà.
Inoltre, con l’art. 25 ter, rubricato “reati societari”, del D. Lgs. n. 231/2001 è stata estesa la responsabilità amministrativa in capo alle società per gli atti di corruzione posti in essere da “soggetti apicali” o “sottoposti”, nell’interesse o a vantaggio dell’ente privato stesso, salvo quest’ultimo dimostri di aver adottato e attuato il c.d. Modello 231 di organizzazione e gestione atto a prevenire il verificarsi di reati quali quello di corruzione. In tale modello dovranno essere individuate anche le conseguenze derivanti dall’esercizio del reato di corruzione, come ad esempio la facoltà delle parti di richiedere la risoluzione del rapporto contrattuale.
Vale rilevare inoltre che, con l’intento di ottemperare alla richiesta dei leaders del G20 di coinvolgere attivamente il settore privato nella lotta contro la corruzione, la Camera di Commercio Internazionale (CCI) nel 2012 ha emanato la ICC Anti-Corrupction Clause (cfr. il seguente link: http://www.iccwbo.org/Advocacy-Codes-and-Rules/Document-centre/2012/ICC-Anti-corruption-Clause/), avente come destinatari società private di qualsiasi dimensione. Con tale disposizione, la CCI ha inteso sensibilizzare ed incoraggiare le aziende private ad inserire nei contratti clausole con un contenuto finalizzato a tutelare gli interessi delle stesse contro il reato della corruzione.
La clausola della CCI dispone, fra l’altro, che se durante l’esecuzione del contratto una parte è imputabile di un illecito di tale natura, la controparte ha facoltà di richiedere la sospensione o la risoluzione del contratto nel caso in cui non siano state adottate o non sia più possibile adottare azioni di rimedio e riparazione.
Nella descritta situazione appare evidente l’importanza che le parti contrattuali dovrebbero prestare in sede di disciplina della clausola in parola.
Nell’ambito di contratti per i quali sia prevista l’applicazione del diritto interno, le parti possono limitarsi ad un rinvio a quanto disposto dall’art. 2635 c.c. oltre a munirsi del Modello 231 così da tutelare la società ed esimere la stessa da responsabilità contro ipotetici atti di corruzione posti in essere da soggetti apicali o sottoposti.
Nel caso di contratti governati da una legge diversa da quella italiana, quale ad esempio una normativa di common law, le parti hanno facoltà, in linea generale, di richiamare la clausola predisposta dalla CCI e/o di inserire nella clausola inerente alla casistica dei material breach (ossia gli eventi che generano la risoluzione di diritto del contratto) anche il compimento di atti che integrano la fattispecie del reato di corruzione. Ad ogni modo, nella redazione di contratti internazionali, le parti sono tenute ad accertarsi se la legge applicabile al rapporto contrattuale preveda specifiche normative in materia di corruzione alle quali attenersi nella redazione della clausola.
A tale riguardo, tra le normative di common law si segnala il Bribery Act (2010) del Regno Unito che si applica a tutte le società che ivi svolgono attività di business. Sulla base di tale normativa, al verificarsi di atti di corruzione in ambito societario, gli autori (quali ad esempio gli amministratori) saranno soggetti alla pena della reclusione; la società sarà invece gravata da ingenti sanzioni pecuniarie oltre che considerata dalle agenzie governative come responsabile in modo oggettivo per tali atti di corruzione, salvo che la stessa dimostri di aver adottato tutte le misure necessarie al fine di prevenire la realizzazione degli illeciti.
Degno di nota è anche il Foreign Corrupt Practices Act (1977) degli Stati Uniti d’America, che si applica, fra l’altro, agli issuers (società quotate in borsa e/o sottoposte all’obbligo di inviare periodicamente reports all’agenzia federale Security and Exchange Commision) e ai domestic concerns (società, partnerships, associazioni, business trust e altri operatori che hanno sede legale negli Stati Uniti ivi compresi i cittadini statunitensi anche se residenti all’estero).
In caso di violazione delle disposizioni delineate dal Foreign Corrupt Practices Act, le sanzioni previste sono normalmente molto elevate: una società potrebbe essere condannata al pagamento di una somma fino a 25 milioni di dollari.
L’applicazione di tale normativa è stata estesa anche alle società straniere e alle persone fisiche che abbiano commesso, in modo diretto o per il tramite di agenti, atti illeciti, quali il pagamento di tangenti, nel territorio statunitense.

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