Cina-USA: il triello fra controllo, consenso e dazi

di Maurizio Gardenal, Avvocato, Dott. Prof. Alessandro Politi, Studio legale internazionale Gardenal & Associati
Articolo pubblicato su “Diritto 24″, rubrica del Sole24Ore.com, 11 aprile 2019

Seguendo le vicende di Cina e Stati Uniti, riaffiora il commento marxista-leninista di Mao “La stabilità di tutti i processi è relativa mentre invece la mutabilità che si esprime nella trasformazione di un processo in un altro è assoluta”.

Nella provincia del Guangdong le Autorità locali hanno recentemente punito un cittadino per avere fatto uso di un Virtual Private Network (VPN) software per eludere la censura nell’accesso ad internet.

Al di là della sanzione comminata di 1.000 Rmb, l’evento appare come il primo caso d’applicazione concreta a carico di un individuo della legge cinese del 1996, afferente l’accesso globale alla rete (la Temporary Regulation for the Management of Computer Information Network International Connection). La legge prescrive che si possa utilizzare internet solo per via di provider governativi ovvero per mezzo di entità espressamente autorizzate. Dunque il duetto ordine e controllo sarebbe finalmente ristabilito.

Nel 2017 il Regolatore cinese (Regolatore) ha emesso un provvedimento per disciplinare l’attività dei VPN sui quali fanno affidamento, oltre ai connazionali, anche gli stranieri per l’uso, ad esempio, di Google e Facebook che sono normalmente preclusi in Cina (Cyber Security Law of the People’s Republic of China). In particolare, il Regolatore ha stabilito che i VPN debbano munirsi di apposita licenza senza la quale non potrebbero essere considerati entro la legalità.

Eppure, il vero tema è che la misura, di fatto, non è ancora operativa, posto che non è chiaro come possa essere tecnicamente implementata e quali criteri debbano assurgere ad ago della bilancia per distinguere chi abbia diritto ad essere qualificato ad ottenere la licenza e chi no. Lo tesso Regolatore ha definito la fase in atto come “complex”.

Controllo dunque, ma quale e verso chi? Secondo logica non ci dovrebbe semplicemente essere accesso a Google e Facebook, mentre si legalizza una pratica diffusa, tentando di disciplinarla dall’alto come le necessità del controllo richiedono.

Controllo significa ovviamente censura, che infatti è da tempo un business in forte rialzo: basti pensare che la versione on-line del quotidiano ufficiale del partito comunista cinese – che offre servizi ad alta tecnologia per la rimozione di contenuti multimediali sgraditi – ha stimato per quest’anno un incremento del net profit sino al 140%. Nel corso di una visita alla sede del quotidiano del partito nel 2016 il Presidente Xi Jinping ha dichiarato “the whole party and all the nation’s people seek spiritual strenght and a guiding star from the People’s Daily“.

Cosa censurare però se a monte si accede a contenuti impropri con un VPN? Entra in gioco, nell’ordinato sistema comunista, l’aziendalissima e prosaica nozione di compliance. A fine marzo 2019 VPNMentor, una società che controlla i software dei VPN services che ha permesso di accedere liberamente alla rete eludendo i controlli, ha avuto le ali tarpate da Google che ha deciso d’interrompere la vendita degli annunci pubblicitari dell’operatore. Un caso analogo ha interessato la Top10VPN e varie altre società in tale ambito.

Una scelta aziendale di compliance “to disallow promoting VPN services in China due to the local legal restrictions”. No cash, more (communist) Party. Insomma, oggettivamente un assist, nelle parole di Lenin.

Questa sempre oggettiva necessità di controllo si estende ovviamente a cose ben più serie come i rapporti tra capitale, produzione e lavoro. Infatti nei primi mesi di quest’anno numerosi editori promotori, fra l’altro di labour websites in contrasto con la regola del sindacato unico, sono stati arrestati dalle Autorità con l’accusa di “gathering crowds and disrupting pubblic order“.

È una mezza verità perché, secondo il legale di uno dei detenuti, il motivo delle rimostranze è da ricondurre ad una devastante silicosi contratta da milioni di lavoratori nel corso della costruzione di alcune megacity cinesi. L’ordine pubblico in Cina non sono quattro anarcoidi in una città, ma 70.000 incidenti di ordine pubblico dal 2013 al 2016, secondo i calcoli di un attivista poi debitamente arrestato. Sono cifre che non fanno rima con consenso diffuso.

La legge cinese che disciplina dal 2012 l’attività sindacale in Cina prevede, infatti, il country’s single-union system affidato dal Governo centrale all’ACFTU (All-China Federation of Trade Unions) con l’effetto di porre fuori legge ogni eventuale forma associativa di matrice diversa.

Questo però non ha modificato uno stato di fatto in cui “sindacati (relativamente) indipendenti” esistevano ed erano tollerati nelle medie imprese del Guangdong sin dagli anni ’90 ed erano entrati nel 2013 anche nella taiwanese Foxconn presente con 13 stabilimenti in Cina. Ancora una situazione complessa.

Conclusioni 
A dispetto della stabilità ricercata, il governo da un lato fatica a reggere il ritmo delle autorizzazioni e dei controlli, dall’altro fa chiudere a Google il proprio motore di ricerca dal 2010 dopo ripetuti oscuramenti e dall’altro riceve un aiutino da un’opportuna compliance a leggi italianissimamente poco chiare ed applicabili, frenando la diffusione di VPN che cavalcano il 5G e le nuove tecnologie. Se la legge informale del guanxi (la relazione che porta contraccambio) vale, la ditta di Mountain View può ragionevolmente aspettarsi un gesto amichevole da parte del Regolatore.

È chiaro che tutto rientra in una partita più vasta e complicata. Nell’ambito dei negoziati in corso tra Pechino e Washington, sia la Casa Bianca che lo Zhongnanhai hanno interesse ad annunciare un accordo di ampia portata, magari celebrando un vertice tra i due capi di Stato nella capitale degli USA in considerazione del rapido approssimarsi dello scontro elettorale presidenziale statunitense.

Il presidente attuale rincorre una rielezione che non è più scontata dopo la diffusione (per quanto sbianchettato) del Mueller Report sul Russiagate e Pechino non può permettersi di gravare ulteriormente la base produttiva con un incremento del dispositivo sanzionatorio statunitense.

Nondimeno, un accordo tra i due leader globali non potrà eludere la battaglia tecnologica che vede Huawei respinta dal mercato nordamericano con l’accusa di spionaggio e Google, oltre ad altre US high tech firm, estromessa dal ricco mercato asiatico. Saranno i due politici in grado di evitare il micidiale tiro incrociato fra controllo, consenso e dazi dentro un sistema economico del Pacifico profondamente interconnesso? Molto dipenderà dalla saggezza o dalla stupidità dei loro entourage. Peggio o meglio della Brexit? Si accettano scommesse.

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